Giancarlo Bonomo
Curatore e critico dell'arte
Premessa
Il discorso sulla funzione dell’arte ha da sempre alimentato ed acceso gli animi,
almeno dal momento in cui essa sposta il proprio baricentro dalla funzione
ancestrale puramente decorativa, pacificante e consolatoria a quella più
‘impegnata’ nel confronto con i fatti della teologia, della filosofia o della storia.
Nel mondo greco l’arte assume il ruolo di esaltare il mito degli dèi distinguendosi
da quella pragmatica dei Romani, più attenta a celebrare l’eroismo delle
proprie gloriose gesta terrene, mentre nel periodo bizantino si presenta algida e
distante dagli umani affanni. Nei celebri mosaici da Ravenna a Costantinopoli il
divino appare confinato nella fissità ieratica dei suoi protagonisti che sembrano
porre una netta distinzione fra l’irraggiungibile dimensione divina e quella
terrena, senza collegamento alcuno. Sarà nella seconda metà del 1200 che il
linguaggio figurativo assumerà connotazioni diverse e più verosimili alla verità
dell’uomo, alle problematiche della sua vita vera, caratterizzata non solo da
motivazioni di fede ma anche da aspetti profani. In seguito essa rivestirà un
ruolo guida pieno, determinante, come un grande documento storico. Accanto
alle figure divine o mitologiche troveranno così spazio le realtà del quotidiano,
le vicende della vita normale. La pittura di genere, ad esempio, rappresenta
la dimensione bucolica ed idilliaca dell’esistenza allo stato puro, senza santi e
senza eroi. La vita della gente comune che si autodetermina nella semplicità. La
grande Arte, dunque, ha sempre assunto una molteplicità di funzioni, in primis
di illustrarci la Conoscenza e le verità del mondo in tempi in cui non esistevano
la fotografia, il cinema o la televisione. Come avremmo potuto conoscere il
mondo antico senza le immagini dipinte? Come si sarebbe potuto immaginare
il volto del Cristo o dei Santi? Attraverso le parole scritte su papiri e carte, certo,
oppure la tradizione orale. Ma è pur vero che l’impatto dell’immagine nella
percezione collettiva è tutt’altra cosa, specie nei secoli in cui l’analfabetismo era
ampiamente diffuso. Non a caso, papa Gregorio Magno scrisse: ‘La pittura può
servire all’analfabeta quanto la scrittura a chi sa leggere...‘. Immaginiamo allora
la meraviglia delle genti che videro per la prima volta le storie di San Francesco
ad Assisi o le scene celesti della Cappella Sistina a Roma. Un insieme di mondi
colorati ed animati si apriva ai loro occhi per illustrare la grande enciclopedia
dell’umanità nel passaggio fra le epoche.
Specchi rivelatori: le opere polisemantiche
Ma, naturalmente, la funzione dell’arte non si limita solamente a queste analisi. Vi è un aspetto che va molto oltre: quello psicologico di colui che l’ha concepita e realizzata, specie nell’epoca moderna, dopo le rivoluzionarie teorie della psicanalisi, da Freud alla psicologia analitica di Jung fino allo strutturalismo di Lacan, che hanno aperto la letteratura critica a nuove interpretazioni molto più complesse ed articolate, prima assolutamente impensabili. E, a questo proposito, sull’onda della cultura figurativa novecentesca che ha spalancato porte e portoni sia all’Irrazionalismo simbolista che alla disgregazione dei linguaggi convenzionali attraverso le avanguardie storiche, ci piace considerare l’indagine attuale di Mauro Milani estremamente connessa proprio al mondo psichico, e, in generale, al confronto dell’uomo con il Mistero della propria esistenza. I suoi lavori elaborati e polisemantici – ovvero pregni di simboli plurimi e tracciati ancestrali – sono simili a degli specchi riflettenti e rivelatori. Specchi dipinti che ‘parlano’, insomma. Dal punto di vista simbolico, lo specchio (dall’etimo latino speculum, da cui specere, ovvero osservare) riveste un duplice significato. Se nel mito di Narciso esso è simbolo di mera e tragica vanità, un’altra lettura ne restituisce l’interpretazione opposta, connessa all’osservazione dell’Oltre. Lo specchio della Maddalena, ad esempio, è la presa di Coscienza, così come lo specchio magico tanto citato nelle favole è il percorso iniziatico della Conoscenza ‘riflessiva’. E’ pur vero che i canoni privilegiati, le predilezioni di stile per alcuni dettagli sono elementi preziosi che comunicano attraverso un linguaggio silenzioso non meno eloquente. Giovanni Morelli, nelle sue famose ‘cifre morelliane’ indicava un metodo per certificare con buona validità l’attribuzione di un’opera all’autore. Queste ‘cifre’ sono i dettagli anatomici o naturalistici che, nella metodica coazione a ripetere delle esecuzioni, rivelano la firma ed i segreti esclusivi dell’autore. La forma di un orecchio, ad esempio, o il modo di rappresentare le dita di una mano. E questa era l’utile disamina volta a risolvere i dubbi sulla firma di un’opera, secondo il Morelli. Ma, risolto il problema dell’attribuzione, stabilita la paternità del dipinto che abbiamo davanti agli occhi, saranno proprio quegli indizi a consentirci di andare verso quell’Oltre che rivelerà le infinite ragioni non espressamente dichiarate. Perché l’interpretazione esaustiva di un’opera è sempre la risultante di ciò che si vede e ciò che non si vede ma che, tuttavia, si percepisce per altre vie.
Se nel celebre inciso iniziale Seneca allude alla metafora dell’introspezione
attraverso la vera immagine riflessa in uno specchio ideale che consente di
guardarci dentro, è pur vero che i dipinti sono autentiche radiografie dell’Anima
di colui che le ha concepite, ancor di più quando il riferimento realistico viene a
mancare. E sembra proprio questo il punto di partenza del nuovo ciclo di pitture
di Milani che pare sporgersi audacemente verso i limiti del suo mondo interiore
disseminando indizi (alcuni tipici della sua cifra stilistica, altri più criptici ed
enigmatici) e assegnandoci il compito di risolverli in una soluzione quanto più
possibile veritiera. E’ sempre lui, il Milani interrogativo che conosciamo, certo,
ma con alcuni elementi, in precedenza solo accennati, che ora si delineano
fondanti e necessari. Un’attenta analisi ci restituisce l’idea di un artista che si
è accostato alle opere quasi con riguardo, per non dire pudicizia, attraverso
un sottile intreccio di rarefazioni, preziosità e accenni di un’umanità discreta
e fuggevole, quasi incerta e provvisoria. La sagoma di quello che appare
l’uomo contemporaneo si confronta con un senza-tempo che lo proietta in una
dimensione di vuoto apparente, dove prevale il concetto di ‘sottrarre’ piuttosto
che ‘aggiungere’. Sui fondi astratti ed informali si stagliano i contorni dell’umano
che pare affacciarsi verso le praterie dell’infinito, in un’assoluta moltitudine
cromatica che ricorda le colorazioni immaginarie dell’Aura vitale. Un’Aura che
muta di volta in volta per effetto degli stati di Coscienza e dell’evoluzione dei
suoi ‘campi’ energetici di luce. Ed appaiono talvolta fragili, queste composizioni,
così come lo è pur sempre l’essere umano. In alcune deliziose sbiaditure ad
effetto venato le sovrapposizioni cartacee si presentano progressivamente
consunte, lacerate. L’identità figurazionale è ancora riconoscibile ma... è forse
destinata a perdersi? Cosa rimarrà di quelle sagome, dei corpi ‘vuoti’, solo
l’afflato dell’Anima? Ma, il Vuoto è comunque una dimensione fondamentale.
Nella filosofia del Tao esso è preludio di Conoscenza perché è spazio libero
che accoglierà i contenuti che verranno. Guai a non percepirne la presenza! E,
in questa evocazione ricercata dell’Irrazionale (da cui, come insegnava Jung,
non si può prescindere per comprendere la totalità dell’esistenza) Milani si
immerge con ferma coerenza, quasi fosse un suggerimento interiore ineluttabile.
I contorni della sua umanità non hanno connotazioni somatiche riconoscibili, e
forse questo non è neppure importante. Potrebbe essere l’artista stesso replicato
in ogni composizione, così come chiunque di noi. L’avventura umana è la
medesima per tutti, il confronto con la Verità della Vita è compito comune e, in
ultima analisi, fine ultimo. Nessuno può eludere le leggi dell’Universo né tanto
meno sottrarsi ad un cammino interiore verso l’Assoluto.
‘L’Inconscio è il discorso dell’Altro’ (Jacques Lacan)
Questa celebre riflessione di Lacan ci conduce vicini a noi stessi e lontani da
un sistema di credenze che per molto tempo ha alterato (e condizionato) il
nostro sistema di giudizio. L’Inconscio, forse, non è simile ad un contenitore
immaginario e disordinato ma, viceversa, è strutturato come un linguaggio che
si esprime attraverso molteplici codici, segni ed indizi che, in qualche modo,
rivelano un piano dell’Essere di cui non abbiamo piena consapevolezza. Potrebbe
essere l’autentico portale della nostra Essenza spirituale, ciò che in verità siamo
aldilà delle pastoie del linguaggio e delle maschere multiple della personalità
(non a caso ‘personalità’ deriva dall’etimo etrusco phersu=maschera). Sono
emblematici, a questo proposito, i lapsus della memoria, i ‘tic’, gli ‘incidenti’ ed i
guasti del linguaggio o i pensieri ricorrenti apparentemente scollegati dal nostro
sentire razionale. Ebbene, se applicassimo questa teoria al corpus pittorico
del Milani più enigmatico e simbolista, sarebbe meno difficoltoso trovare delle
risposte o, quanto meno, avremmo una mappa da seguire che scongiuri il
pregiudizio della casualità o dell’espediente pittorico inserito nel contesto così,
tanto per stupire, come è abitudine nell’arte di provocazione. Le scelte di Milani
non sono mai casuali, tutt’altro. Non sta giocando una partita a dadi. I suoi
‘significanti’ (ovvero i segni che articolano il concetto mentale del ‘significato’)
trovano la perfetta collocazione anche nel disordine apparente, nell’incessante
dinamicità espressiva. Quel tipico senso di incompiutezza – motivo molto caro
all’artista – contiene in sé ogni elemento, glifo o figura geometrica che sia,
a prescindere. Osserviamo le opere e, da un momento all’altro, potremmo
aspettarci l’ingresso in galleria del nostro artista col pennello in mano, magari
per modificare qualcosa sulla spinta di una idea migliore giunta in quel momento!
Ma, non con poca sorpresa, di certo scopriremmo che questa provvisorietà ci
piace, ci mantiene vigili, attenti e curiosi verso una forma d’arte che costringe a
riflettere e non prevede punti di conclusione ma solo di perenne sospensione...
come è giusto che sia. Ecco l’arte dell’immediatezza, l’arte del presente che ci
fa sentire partecipi nel ‘qui ed ora’ senza mistificazioni.
Gli specchi dell’Inconscio collettivo
Cosa sarà mai il concetto della contaminazione se non opposizione alla stasi,
alla cristallizzazione dogmatica delle comuni convinzioni? Potremmo intenderlo
come una prerogativa oppure una scelta. Scelta di abbattere i rigidi confini
della forma e dei contenuti, della sintesi e dell’analisi, e desiderio di azzerare
ogni condizionamento pernicioso per ripartire con un bagaglio proprio. Non a caso gli antichi Greci – abituati a pensare sempre ‘in grande’, come
diremmo oggi – consideravano teoria e pratica, mente e corpo, come la stessa
cosa, senza alcuna separazione. Ed ecco che proprio in questo punto ritroviamo
il Milani classico e contemporaneo ma, faremmo prima a dire, immerso nel
senza-tempo (e la figura del cerchio lo sta a dimostrare), come ideale modello
cognitivo e ben noto leitmotiv della sua arte. Qui il tempo è più che mai relativo,
letteralmente. I richiami al mondo classico ritornano ma, in realtà, non sono
mai partiti nel profondo della sua interiorità particolarissima. E, questo, non
è l’atteggiamento del citare ad ogni costo bensì del comprendere, ovvero del
prendere con sé, ‘abbracciare’, senza l’intento di disconoscere irrispettosamente
il simulacro antico. Distinguiamo il volto degli eroi e dei miti nell’eloquente nudità
dei corpi: ad essi, il privilegio dell’identità è concesso. Così come la distinguiamo
nei dettagli delle opere rinascimentali, sovente richiamate specie nei ritratti. Essi
sono i paradigmi, i modelli primi. Ma... le sagome contemporanee non hanno
il privilegio espressivo del dettaglio. Tutto sfuma. L’umanità nuova pare cercare
disperatamente il filo di Arianna che la ricongiunga ai valori di riferimento, alle
vestigia amiche. Ed è interessante questa riflessione (intesa in entrambi i sensi) di
questi ‘specchi’ dipinti. In queste opere di ‘confronto’ e singolari sovrapposizioni
di epoche e figure, l’artista evidenzia il palese smarrimento di un’umanità
senza volto e, nel contempo ne evoca la soluzione, ovvero che alcune radicate
persuasioni sono solo barriere mentali, null’altro. Tutto è in noi, il tempo è solo
misurazione convenzionale. Ecco allora quelle stesse sagome che contengono,
inglobano in sé colori, forme, reperti. In altre parole... dimensioni di cui, forse,
abbiamo solo pallida conoscenza per un nostro evidente limite sapienziale.
Eppure esse sono, eccome! Milani rappresenta ciò che sente senza preoccuparsi
troppo di far quadrare tutto per forza. Non si prefigge una meta ma un cammino.
A suo modo, con ricercato stile – e, aggiungiamo, con la lodevole discrezione
che lo contraddistingue – segue la sua stella. Una favola antica narra che le stelle
brillano affinché ognuno possa riconoscere la sua ed inseguirla con la gioia nel
cuore. La passione dell’arte, in fondo, conduce a questo. Ci piace allora ricordare
il giovane Milani dell’Accademia di Bologna che, perduto fra le aule ed i lunghi
corridoi, sogna di partire alla ricerca di quella famosa stella. Non sappiamo se,
in effetti, l’abbia trovata. Ma, di certo, è molto vicino ad essa.